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Storie
Claudia Moritz, tedesca di nascita e italiana di adozione, ha unito il fascino per il Bel Paese alla passione per il vino e per l’organizzazione di eventi, i matrimoni in particolare. Ed è l’amore il segreto del suo successo.
Come nasce l’amore per il vino?
Seppure tedesca, non amo la birra. Mi sono invece innamorata del vino e dell’Italia. La scintilla è scattata in Sicilia, dove per tanti anni ho lavorato in aziende vinicole e diverse cantine, occupandomi sia della parte commerciale, sia dell’ospitalità. E così ho iniziato a entrare in cantina durante la vendemmia e assaporare gli odori della natura partendo dall’uva per arrivare al prodotto finito. Il contatto con le persone e stare insieme davanti ad un bicchiere di vino completa il quadro. Come i veri amori, non mi sono più allontanata da questo mondo al quale ho unito anche un’altra passione: i matrimoni.
Come si combinano tra loro?
Vino ed eventi si sposano bene. E l’Italia è la cornice perfetta per il raggiungimento di questo connubio. Castelli, ville, tenute di vino e piante affascinano molto e io cerco di rendere speciale tutto. La Toscana in particolare offre il fascino dei vigneti e delle fattorie, in cui tutto si lega alla tradizione e alla cultura. Spesso capita che qualcuno venga in Italia per una vacanza o per un meeting, si innamori del Paese, dei suoi odori, dei suoi sapori, del vino e della natura e decida di farci ritorno per coronare il giorno del matrimonio in questa splendida terra, ricordandosi del primo viaggio.
Consiglieresti il tuo percorso?
Ho cominciato il mio percorso lavorativo come dipendente e ora ho la mia attività: è sicuramente un percorso che consiglio. Volontà e passione sono secondo me gli elementi fondamentali: ci vuole fatica, anni di duro lavoro e pazienza, ma se c’è la volontà, la passione e l’impegno si possono creare tanti bei progetti e raggiungere tanti obiettivi, anche in Italia dove magari alcuni aspetti come la burocrazia a volte possono rallentare, ma non bisogna mollare e sono convinta che con queste basi tutto sia possibile.
Cosa progetti per il futuro?
Vorrei realizzare percorsi ed eventi che legano i fiori e la natura al vino. Ho già promosso un evento con un’altra event planner di Firenze che richiamava i profumi floreali del vino e penso che questa sia una strada innovativa. Seguo la strada della passione e sono certa che mi porterà lontano. Immagino eventi in location molto particolari, in Toscana, con vino, musica, fiori, cultura e tradizione, ma anche sostenibilità.

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Storie

Attrice di fama nazionale, con esperienza sia in campo teatrale sia cinematografico, Chiara De Bonis sperimenta con successo una forma di (meta)teatro in cui i bambini, ma anche gli adulti, fanno un viaggio nelle fiabe di ogni tempo, da lei riscritte e reinterpretate. Immagine e parola si fondono e gli oggetti – tutti rigorosamente da lei decorati, dipinti, modellati – prendono vita. In questo teatro di educazione Chiara è artista a tutto tondo: racconta, recita, crea. Arriva con una valigia dinnanzi al suo pubblico, anzi ai suoi compagni di viaggio: ci sono le piume, i cappelli, un telo azzurro che è cielo ma anche mare, e tanto altro…il suo mondo è tutto là dentro. 
Come nasce l’idea del teatro della fiaba?
Ho sempre avuto la passione per il mondo della fiaba e infantile, oltre che per il ballo, il canto, la recitazione e la pittura. Negli ultimi anni ho messo insieme un po’ tutti questi pezzi: quelli dell’attrice e quelli della pittrice e ho cominciato a illustrare tutto quello che riguarda le fiabe e a fare spettacoli per bambini. La scenografia e gli oggetti scenici sono realizzati interamente da me; dipingo su qualunque superficie: mobili, porte, oggetti riciclati qua e là… Oltre a fare spettacoli, da quest’anno mi occupo anche della formazione: al nuovo teatro “Caffeina” di Viterbo tengo due corsi per bambini dai 6 ai 12 anni. Si tratta di una occasione unica di scoperta (sia per me sia per i bambini) della condivisione e della collaborazione, di come essere un corpo unico ma anche una individualità. Nel 2017 all’interno del Roma Europa Festival Kids, alla sua prima edizione, ho allestito una stanza dei bimbi, con un angolo in cui i bambini-visitatori potevano scegliere di vestire i panni che volevano (fate, elfi ed altri), poi tutti sul letto per partire nel mondo delle fiabe e di lì inizia il racconto. Questa è la formula di teatro che mi piace di più, più del fare l’attrice. 
Hai recentemente riscritto e reinterpretato “Alice nel paese delle meraviglie”.
Alice è il racconto dei racconti che ben si presta atante letture della realtà. Io racconto il mondo di Alice cercando di coinvolgere i bambini, portandoli sulla scena, spiegando cosa è il teatro, uscendo dal personaggio e chiedendo loro di interpretare un ruolo. Sulla scena in una teca c’è un cannocchiale con cui i bambini possono provare a vedere come vedeva Alice. È come condurre per mano i bambini. 
Il tuo sogno nel cassetto?
Vorrei progettare e realizzare un museo delle fiabe su ispirazione del museo di Pamuk ad Istanbul. Lo immagino come un allestimento mobile in cui tutto cambia e tutto può essere vissuto dal bambino, ma anche dagli adulti ovviamente: le stoffe con cui potersi immedesimare in un personaggio, le teche, i quadri, i piccoli mobili, le lampade… Uno spazio di condivisione, di viaggio e di esperienza con e nelle fiabe.

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Nico Sasso, classe 1991, pugliese trapiantato a Ferrara e cittadino del mondo, si dedica alla diffusione della cultura preistorica tra i più piccoli. Dottore in Archeologia, ha trasformato la sua grande passione per il Paleolitico e l’Uomo di Neanderthal e il suo indiscusso talento naturale con i più piccoli in una attività di successo. Insieme ad altri studenti o neo laureati si dedica all’Archeologia preistorica didattica e sperimentale, convinto che insegnare ai bambini, attraverso il gioco, a leggere i segni nascosti del passato sia fonte inesauribile di scoperta personale, oltre che universale.
Archeologo si nasce o si diventa?
Con l’archeologia ci nasci o al massimo ti appassioni, quasi all’improvviso. La mia passione sono sempre stati i dinosauri (lo sono ancora), ma quando ti trovi davanti ai resti di un’altra specie che in un altro momento della storia faceva le tue stesse cose, scatta qualcosa. Non si riesce a spiegare: questo è un lavoro che fai solo per passione. Ho iniziato a fare la guida turistica da volontario all’interno di un sito archeologico 13 anni fa e da allora non ho più smesso.
Come nasce l’idea di organizzare laboratori didattici sull’archeologia?
Far comprendere qualcosa di difficile, ma entusiasmante; di lontano nel tempo, ma molto vicino allo stesso tempo; di misterioso, curioso, sporco, ma di una chiarezza, precisione e lucidità disarmanti: è da queste premesse che nascono i laboratori.  
In cosa consistono?
Dall’evoluzione dell’uomo e degli animali ai concetti di estinzione e adattamento all’ambiente; da come si accendeva il fuoco a come si fabbricavano gli strumenti per la caccia. Poi ci sono la pittura, la scultura, la fabbricazione del vasellame e la lavorazione dei metalli. E dalla lezione frontale, ridotta all’osso per questioni di tempo, si passa ai giochi che possono essere una serie di quiz a punti, di cruciverba creati appositamente per ogni argomento trattato, allo scavo simulato, alla ricostruzione di scheletri di uomini primitivi, alla cucina preistorica, alla decorazione dei vasi fatti con l’argilla. E d’un tratto mi ritrovo a catalizzare l’attenzione di centinaia di bambini che per poche ore si trasformano in archeologi o artisti preistorici.
Qual è la ricetta vincente?
Sinceramente? Non lo so. Quando lavoro con i bambini sono un fiume in piena. Mi lascio completamente andare. Mi trasformo in quel bambino che vorrei tanto ancora essere e al quale nessuno ha mai spiegato chi fosse l’uomo di Neanderthal, o come si cucinava la carne del mammut o come si cucivano le pellicce per farsi le scarpe e camminare sui ghiacciai. Mi accorgo di aver fatto un buon lavoro solo alla fine, quando loro, i bambini, chiedono se mai ci si rivedrà per poter fare altre domande, o provare a disegnare o scavare o spiegare questo e quello. Credo che sia questo il segreto: diventare un bambino.
Cioè abbassarsi al loro livello?
Diventare uno di loro. Abbassarsi si fa per dire, perché loro sono molto più in alto di noi: loro ti fanno una domanda e mentre tu rispondi, sono già proiettati alla domanda successiva o dialogano con te su quella risposta che cercavano, proponendo altro, magari entrando fantasiosamente nell’argomento, ma sempre con una lucidità disarmante. E i bambini sono così, sono disarmanti quando con una domanda o una risposta ti spiazzano, perché hanno già capito tutto, conoscono già quell’argomento.
Faccio un esempio. Lo studio delle impronte fossili si chiama icnologia. Tu non sei un libro che sta lì a dire a un bambino che icnologia vuol dire studio dell’impronta, tu sei una persona, più alta e con la barba (i bambini vedono solo questa differenza tra loro e te che gli parli), se gli vuoi spiegare cosa vuol dire icnologia, gli piazzi davanti un’immagine, un disegno, o una vaschetta piena di sabbia in cui fai mettere il piede ad uno di loro e la risposta se la devono cercare da soli, immaginando e vedendo dal vivo come funziona la realtà. A volte ci si scontra in ambito accademico su cosa si dovrebbe spiegare ai bambini, scegliendo spesso di non dire o non fare delle cose perché difficili da far comprendere e che la semplificazione non va bene. Io sono per la semplificazione, non per il pressapochismo, ma solo per la scelta delle parole. Tranne quando vai in classe, o al museo, o in dipartimento all’università, e tutte le tue preoccupazioni svaniscono quando i piccoli ne sanno più di te. E allora esordisco con un mio must che ripeto ad ogni lezione: “allora sapete già tutto! Decidete, fate voi lezione a me o me ne posso andare a casa a vedere i cartoni animati?” Ovviamente la parola magica è cartoni animati e quando i bambini sentono dalla tua bocca che tu sei come loro, vedi e fai le cose come loro, allora è fatta: hai tutta la loro attenzione. 
Consiglieresti il tuo percorso?
Consiglio di coniugare teoria e pratica e soprattutto di fare della passione il motore delle proprie azioni. Io ho fatto tre percorsi per arrivare a questo punto. Paralleli. Il primo è quello lavorativo, tra un parco archeologico e due musei in giro per l’Italia. Il secondo è quello accademico tra Lecce e Ferrara, che mi ha dato davvero tanto in termini di istruzione. Il terzo è quello didattico dove ho la possibilità di ricambiare quello che gli adulti hanno fatto per me quando ero piccolo, io ora lo faccio con le nuove generazioni.
Che cosa ti aspetti dal futuro?
Nonostante la situazione culturale italiana in questo campo non sia rassicurante (un esempio per tutti: nei libri scolastici del 2017 ho letto nozioni ferme agli anni ’80, o che gli archeologi studiano i dinosauri), e nonostante le difficoltà per una corretta informazione e divulgazione siano tante, sono convinto che insegnare ai bambini cosa vuol dire avere a che fare con una specie umana diversa dalla nostra, ma uguale in opere e pensieri, lasci ancora spazio alla speranza.

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Storie

Diversamente da suoi molti colleghi, alcuni dei quali decisamente meno capaci e “blasonati”, Fabrizio Di Liginio non ama le luci della ribalta. Se volessimo scomodare la fisica aristotelica potremmo dire che il suo luogo naturale è davanti ad un forno, non ad una telecamera. Eppure è tra i più abili interpreti dell’arte bianca nel panorama nazionale, da alcuni anni “indiscusso responsabile” del successo di numerosi locali capitolini. E ciò soltanto grazie alle sue pizze gourmet, ai suoi impasti ad alta idratazione che vengono coccolati per ben 72 ore prima di finire nei piatti di fortunati commensali.
Il viaggio di Fabrizio inizia nel ristorante di famiglia a Borgo San Pietro, un piccolo paesino della provincia di Rieti, e prosegue, dopo la formazione all’istituto alberghiero di Rieti, con corsi di alta formazione in panificazione e poi presso la scuola italiana pizzaioli, della quale diventa presto istruttore. L’esperienza prosegue in numerose strutture sparse su e giù per lo stivale, in Europa fino ad arrivare in Cina.
Da Borgo San Pietro alla provincia di Sichuan c’è parecchia strada
Sono una persona curiosa per natura e mi piace il cambiamento. Ho difficoltà a restare fermo o a sedere sugli allori: da questo punto di vista la parentesi cinese ha rappresentato davvero un bel cambiamento, anche se forse un po’ estremo.
A livello culturale, sicuramente, ma immagino anche gastronomico…
La pizza, pietanza globale per antonomasia, in Cina paradossalmente non ha ancora preso piede. Il gusto, al pari di qualunque altro senso, va educato e in quel paese, diversamente da quanto accade nel vicino Giappone, questo percorso è appena iniziato e richiederà ancora molti anni. A livello gastronomico la diversità che ho potuto vivere e toccare con mano mi ha arricchito moltissimo, soprattutto dal punto di vista della conoscenza e dell’impiego delle spezie. Tante suggestioni, finite ad esempio nella mia pizza a impasto base focaccia con pancia di maiale in agrodolce… davvero eccezionale!
Provieni da una famiglia di ristoratori, la tua è una passione “obbligata”?
Le mie origini hanno condizionato il mio percorso di formazione, facendomi orientare sugli studi alberghieri. La passione, però, non è arrivata grazie alla mia famiglia ma grazie ad un professore ”malato” per la panificazione. Quindi, in termini assoluti, direi di no. Anzi l’arte bianca in un certo senso mi ha affrancato dalla ristorazione tradizionale portata avanti fieramente e con discreto successo dalla mia famiglia, permettendomi di lavorare in contesti diversi e di sperimentare.
Dici di essere attratto dal cambiamento, a livello pratico ciò si traduce in?
Ricerca e innovazione continue. Le persone banali e facilone credono che dietro una pizza non ci sia studio o ricerca. La cifra del lavoro che io e molti colleghi portiamo avanti è rappresentata dal fatto che vent’anni fa pensare ad un impasto a lunga lievitazione e ad alta idratazione, con processi di idrolisi degli amidi, anche per locali da due/trecento coperti, equivaleva a pensare di fare la pizza sulla luna…Oggi è una realtà.
Consiglieresti questo mestiere?
Faccio la pizza per passione.  Mi piacerebbe  che tutti conoscessero questo mestiere e la soddisfazione  che si prova a regalare un’emozione. Nel mio caso è questa la giustificazione alla vita di sacrifici, agli orari impossibili, alla fatica fisica che rappresenta una componente molto rilevante in questo genere di attività. Quindi credo che lo consiglierei, anche se le condizioni attuali mi sembra stiano diventando sempre più proibitive. L’attuale contesto economico non favorisce gli investimenti in professionalità e la grande disponibilità di manodopera straniera, in molti casi disposta a lavorare 15 ore al giorno ad un terzo della paga, sono aspetti che non possono essere sottovalutati se si decide di intraprendere questa strada per vivere…

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Gianluca Esposito, romano, 41enne, ha una grande abilità: riesce a plasmare materie come l’argilla, la ceramica, l’alluminio, conferendo loro forma e significati in grado di affascinare chi le osserva, di proiettarlo in una realtà ricca di suggestioni, a tratti grottesca ma sempre permeata di fascino, bellezza.
“Sono arrivato alla scultura e in generale alle arti figurative in un periodo un po’ difficile della mia vita – ci racconta -. Lavoravo come commesso in una libreria per mantenermi e alimentare la mia grande passione, il teatro. Ha rappresentato il mio orizzonte esistenziale per quasi 10 anni. Sono arrivato anche a fondare una piccola compagnia”.

E poi?
Il nostro gruppo ha iniziato a mostrare dei limiti probabilmente legati all’immaturità e io ad avvertire un senso di inadeguatezza sempre più marcato, al punto di decidere di abbandonare tutto. Una decisione sofferta, accompagnata da una fase di grande sconforto. Poi nel 2009, sotto Natale, un’amica ceramista mi  ha invitato nel suo laboratorio per farmi distrarre dandole una mano…è stata lei ad accorgersi che avevo una naturale propensione a modellare

Quando e come hai capito che questa poteva davvero essere la tua strada?
Dal primo esperimento nel laboratorio della mia amica ho iniziato a lavorare incessantemente. Sebbene molti giudicassero il mio un talento innato ho dovuto faticare molto per acquisire quella “competenza tecnica” che mi mancava e necessaria per metterlo a frutto. Il punto di non ritorno è arrivato nel 2012. La provincia di Roma concedeva degli spazi espositivi a Palazzo Valentini e, del tutto inaspettatamente, la mia domanda è stata accettata, esattamente come quelle di artisti con una storia più solida alle spalle. Poter realizzare una mostra personale in una sede istituzionale in un certo senso mi ha legittimato ai miei stessi occhi. Rispetto al teatro, oltretutto, pittura e scultura offrono dei tempi e dei filtri nell’interazione con il pubblico gestibili con minor difficoltà da una persona particolarmente emotiva…

Il teatro è comunque presente nel tuo lavoro
Certamente. Il bagaglio di esperienze vissute sulla scena  e un gusto divertito per il grottesco credo emergano con forza dal mio lavoro. Molti degli oggetti che realizzo sono decisamente vicini alle maschere

Consiglieresti il tuo stesso percorso?
Direi di no, soprattutto se intrapreso esclusivamente sulla base di un proprio talento. Il talento non giustifica nulla. Nessuno è obbligato a sfruttarlo, lo si ha per natura. Puoi essere portato per le lingue senza necessariamente tentare una carriera da traduttore. Senza un’urgenza esistenziale di  liberare questo talento per potersi esprimere e, in qualche misura, “liberarsi”, davvero non lo consiglierei. Al giorno d’oggi, e in particolar modo se parliamo di arte, il talento deve essere sostenuto da una forte propensione al sacrificio… L’accesso alla creatività diffusa dei nostri tempi ha confuso un po’ le acque, crea ambiguità,  confusione, aspetti che rendono sempre più arduo il lavoro di chi cerca di comunicare in modo continuativo, magari come il sottoscritto su un crinale che vede illustrazione, artigianato, scultura mescolarsi continuamente.   

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